Dal 1949 l’attività giornalistica Rai si è espressa sui pochi fogli di un giornale intitolato “La nostra radio”, la cui prima uscita corrispondeva alla commemorazione del venticinquennio dell’inaugurazione della prima stazione radioemittente italiana. Rivolto, come indicato nel sottotitolo, al personale della Rai, rappresentato a quel tempo da circa tremila dipendenti, solo in seguito tale giornale avrebbe preso le sembianze di una vera e propria rivista, trasformandosi, nel 1958, in “La nostra Rai”, e caratterizzandosi con articoli riguardanti le cronache dell’azienda, ma anche lavoro, cultura e tempo libero.
Nel 1968 poi, un nuovo cambiamento di testata segnalava la volontà di dare vita ad un periodico in grado di rapportarsi con un pubblico molto più vasto. Rivista Rai intendeva liberarsi definitivamente dall’idea di una pubblicazione rivolta soltanto ad un ristretto gruppo dei dipendenti, e aspirava ad attestarsi come una risorsa a disposizione dell’intero Paese. Nel 1973, Francesco Formosa, assiduo collaboratore della redazione, ricordando le premesse da cui era nata “La nostra radio”, scriveva: «il nostro giornale aziendale era destinato a circolare tra persone responsabili dei due più importanti mass-media (uno, la TV, era ancora “in pectore”, anzi “in aere”), e quindi destinato ad “addetti ai lavori”. Per questo il suo tono fu subito diverso, più elevato anche se agli inizi, sfogliando i primi numeri, troviamo […] abbondanti foto dei bambini dei dipendenti, gruppi ricordo dei bocciofili, rubriche tipo “come avete passato le vacanze”». (in n. 9-10-11-12, settembre-ottobre-novembre-dicembre 1973, p. 2). Tra i promotori di quel primo giornale c’era - oltre all’avvocato Attilio Pacces, presidente della Sip e vice presidente della Rai - Salvino Sernesi, che sarebbe diventato poi direttore generale dell’Iri. A sottolineare la vicinanza verso il pubblico interno all’azienda, sul primissimo numero del giornale, egli scriveva: “Questo giornale […] mensilmente intende giungere nella casa di ciascuno di noi per collegarci idealmente e praticamente e per aiutarci a dare uniformità agli indirizzi e ai problemi che ci preoccupano, per rendere più intimi e costanti i sentimenti e gli affetti che ci uniscono”. (in n. 1, ottobre 1949, p. 1).
Ciò che contribuì a far uscire già “La nostra radio” dai binari stretti del tipico bollettino interno fu la direzione, dal 1949, di Gigi Michelotti, un giornalista di fama che era già stato condirettore con Gino Pestelli di “La Stampa”, direttore del “Radiocorriere” dal 1943, critico drammatico tra i più quotati e preparati, nonché collaboratore di rubriche radiofoniche. Michelotti non tralasciò cronache e fatti di famiglia, ma cercò di dare sin dall’inizio un’impostazione giornalistica alla rivista, avvalendosi della collaborazione di professionisti aziendali, con apprezzabili numeri speciali e monografici. L’idea tuttavia era ancora quella del “foglio di notizie” rivolto a quella che era, all’epoca, solo una piccola comunità aziendale, e “La nostra radio” rispecchiava una politica del personale che si ispirava ancora ad una concezione di impresa-famiglia. «Si trattava di una formula secondo la quale la vita di lavoro veniva intesa non tanto come un fatto tecnico-economico, ma soprattutto come l’espressione di una idea romantica di “aziendalismo”». (in n. 9-10-11-12, settembre-ottobre-novembre-dicembre 1973, p. 5).
L’ultimo numero di Lanostraradio presentava un trafiletto ad epigrafe che ne annunciava il cambiamento: «con il numero che uscirà a capodanno Lanostraradio si trasforma in rivista, e, ridimensionato nella stampa, nel formato, nelle qualità delle illustrazioni, nella impaginazione, e arricchito di collaborazioni, assume il titolo di La nostra Rai, comprensivo sia dell’attività radiofonica che di quella televisiva». (in n. 11-12, novembre-dicembre 1957, p. 1).
Marcello Rodinò, nell’articolo di apertura di “La nostra Rai”, aggiungeva: “Questa nuova veste editoriale del nostro giornale aziendale è stata accuratamente studiata e realizzata affinché possano essere presentate a voi tutti, in una periodica rassegna, varia e vivace, le notizie della nostra grande organizzazione, contribuendo così non solo ad approfondire problemi ed esigenze generali e particolari, ma anche ad accomunarci gli uni agli altri in fraterna solidarietà di lavoro”. (in n. 1, gennaio 1958, p. 1).
Il cambio di testata coincise con il passaggio della direzione del personale nelle mani di Marcello Sceverati, che era stato uno dei primi del Servizio Propaganda a promuovere la creazione di uno “stile Rai”, che rispecchiasse il processo di rinnovamento dell’azienda negli anni del boom economico e la conseguente ristrutturazione generale dell’organizzazione aziendale. Dal 1958, si era infatti verificato un mutamento di indirizzi direzionali, conseguente allo sganciamento della Rai dalla Sip e al passaggio nel gruppo Iri. Nel processo di rinnovamento, di cui fu promotore l’allora presidente dell’Iri, Aldo Fascetti, anche questa rivista per il personale mutò visibilmente rotta.
La trasformazione della testata da “La nostra radio” a “La nostra Rai” fu fatta anche per comprendere nel nome, attraverso la sigla dell’azienda, anche l’ormai affermata TV. In occasione di questo mutamento, Michelotti fu affiancato alla direzione dal giovane Carlo Carvaglià, che contribuì in modo determinante alla svolta grafica del periodico. Per quanto riguarda i contenuti del giornale, molto spazio veniva dedicato alla radio e alla sua storia, alla televisione in atto, a temi di attualità, cultura, svago e cronaca, a racconti di esperienze personali, alla partecipazione della radio a mostre e fiere, al panorama televisivo internazionale, alle realizzazioni della Rai, nonché alla presentazione e al “dietro le quinte” dei programmi, ai concorsi e giochi a premi.
Non era possibile individuare in “La nostra radio” una costante e regolare distribuzione degli articoli per argomenti, mentre “La nostra Rai” risulta divisa essenzialmente in tre sezioni: una prima parte relativa a radio e televisione, un corpo centrale incentrato su lavoro, cultura e tempo libero, e una terza parte riservata alle cronache Rai.
Col passare degli anni, secondo Cavaglià, “La nostra Rai” risentiva della incapacità di rispondere alle richieste di approfondimento del pubblico su temi importanti, trasformando le testimonianze degli sviluppi aziendali in una sorta di “rassegna che riproduceva un modello di pubblicazione di varietà” (in n. 9-10-11-12, settembre-ottobre-novembre-dicembre 1973, p. 6), e non riuscendo più a coinvolgere il pubblico che denunziava un’evidente impossibilità di accesso. L’idillico modello di azienda-famiglia andava così in frantumi proprio mentre si sentiva la mancanza di un aperto dialogo su temi sindacali, mostrando l’inadeguatezza di tutta la stampa aziendale italiana a rispondere a tali richieste, freddamente demandate ad altre sedi.
Per questi motivi, il periodico cambiò nuovamente nel 1968, assumendo la denominazione di “Rivista Rai”. Nell’articolo di apertura della nuova testata si leggeva: “La nostra Rai” poteva far pensare a qualcosa di limitato, di esclusivamente interno all’azienda; “Rivista Rai” invece vuole rispecchiare tutto ciò che la Rai significa non solo per chi in essa vive e lavora, ma nell’intero Paese. Dunque una visione d’insieme. Non si può pensare oggi soltanto in termini di lavoro e famiglia aziendale, ma in termini più vasti di lavoro e società e mondo, con le loro molteplici e necessarie connessioni (in n. 1-2, gennaio-febbraio 1968, p. 1). I primi anni di vita della nuova rivista corrisposero, infatti, alla fase espansiva dell’azienda e, in generale, dell’intera società italiana, che si faceva allora società di massa e di consumi, e questo è chiaramente riflesso nelle pagine della rivista, sospinta dal particolare clima del momento a occuparsi di valutazione e valorizzazione dell’immagine aziendale.
Molto più spazio viene dedicato ad articoli di approfondimento sulla situazione sociale e culturale del Paese, ad arte, musica, teatro e letteratura, e non mancano interi fascicoli di approfondimento incentrati su temi di interesse popolare, come grafica, teatro, televisione o radio. Il 1968 corrispose all’inizio dell’imponente espansione dell’azienda, e alla decisiva conquista di un’immagine aziendale prestigiosa. Inoltre, sotto la direzione di Cavaglià, si tentò di attuare una svolta non soltanto a livello di contenuti. Da un lato, si coinvolesero esperti esterni, puntando maggiormente sul “prodotto aziendale”, rappresentato dai programmi radiofonici e televisivi. Dall’altro si cercò di raggiungere una piena coerenza espressiva sul piano grafico. Pur presentandosi con una testata calligrafica, l’impianto grafico di “La nostra radio” risultava in generale sobrio. All’interno abbondavano fotografie, spesso molto ridotte, disseminate liberamente nella pagina.
Con la trasformazione in “La nostra Rai”, come sottolineava Carlo Cavaglià, «La prima preoccupazione della redazione della rivista […] fu quella di muoversi all’interno del suo nuovo formato, ordinandone il contenuto con una costruita veste grafica, allineandosi agli esempi migliori che giungevano sia dall’area Iri sia dagli altri grandi complessi industriali, ma essenzialmente dall’editoria italiana e straniera». (in n. 9-10-11-12, settembre-ottobre-novembre-dicembre 1973, p. 6). E in effetti dopo la gestione di Michelotti, durante la quale non esisteva un preciso programma grafico, e dopo un periodo di transizione in cui il redattore Cavaglià faceva anche da impaginatore, dalla fine del 1959 subentrarono i primi grafici professionisti. «I risultati sono quelli che sappiamo: ordine, pulizia, gusto per la novità». (in n. 9-10-11-12, settembre-ottobre-novembre-dicembre 1973, p. 41). Le copertine, in generale, utilizzavano colori di fondo accesi e contrasti molto forti, spesso con interessanti interpretazioni grafiche sui temi trattati all’interno delle stesse pubblicazioni.
Danilo Nubioli portò un forte rigore formale legato alla ricerca di equilibrio e un’accesa fantasia, non disdegnando di utilizzare collage, carte strappate, disegni. Toio Bonfante si preoccupò di fare pulizia dalle cose inutili, adottò grandi spazi bianchi e immagini di ampio respiro, e si dilettò nell’interpretazione dei contenuti. Fu grazie a lui che “La nostra Rai”arrivò alle sue 56 pagine, aumentò la tiratura e ampliò la diffusione anche al di fuori del ristretto circuito aziendale.
Fu poi l’arrivo di Pino Tovaglia, nel 1965, a lasciare l’impronta più decisa e duratura: egli cominciò ad utilizzare nuovi caratteri di stampa, una griglia semplice ma efficace, operando un’accurata scelta delle immagini, e donando alla rivista una “fisionomia aristocratica”. (in n. 9-10-11-12, settembre-ottobre-novembre-dicembre 1973, p. 49). Con Giancarlo Iliprandi, che subentrò a Tovaglia nel 1968, le immagini di copertina guadagnarono ancora più spazio; egli conferì alla nuova testata Rivista Rai una fisionomia più aggressiva e vivace, volutamente disinvolta ed estrosa, utilizzando immagini grandi e smarginate, ed enormi titolazioni. Nel 1969, Gigi Cane, il nuovo direttore responsabile, chiamò il genovese Giulio Paolini. Con l’intervento del noto artista concettuale, “Rivista Rai” poté cambiare nuovamente faccia: le immagini in copertina venivano montate con fotocomposizioni tipografiche e con studiate contrapposizioni di colore.
Tra i molti periodici che a quei tempi operavano in Italia nel settore della pubblicistica industriale, “Rivista Rai” rappresentava l’unica testata radiotelevisiva tra quelle che aderivano all’Asai, Associazione Stampa Aziendale Italiana, a sua volta membro della Feiea, Federazione delle associazioni europee di editori industriali. “Rivista Rai” rivestiva pertanto un ruolo importante, rappresentando la Radiotelevisione Italiana ai congressi sull’editoria tenuti in giro per l’Europa.
“Rivista Rai” terminò le pubblicazioni nell’ottobre del 1976, dopo che già da un paio di anni aveva cominciato a pubblicare i propri fascicoli in modo molto irregolare: nel 1975, uscirono solo tre numeri quadrimestrali, mentre nel 1976 soltanto due semestrali. La fine della rivista non risulta mai annunciata, né vengono riportati segnali o motivazioni di una imminente chiusura.